Il viaggio negli Stati Uniti è stato molto utile per osservare le dinamiche del mondo da un’altra prospettiva. Se non puoi andare in zone del mondo considerate a rischio, sicuramente puoi incontrare a New York persone che arrivano da quelle terre.
Tra tutte le comunità che abitano gli Stati Uniti, quella ebrea mi ha incuriosito più di tutte: la comunità ebraica di New York è una delle più popolose al mondo; gli ebrei d’America gestiscono un potere finanziario enorme, oltre ad essere proprietari immobiliari senza rivali. Inoltre, basta recarsi nel quartiere Williamsburg a Brooklyn per trovarsi immersi nei loro usi e costumi.
Sono tornato negli Stati Uniti nel 2014, in occasione di un’esposizione presso l’Istituto di Cultura Italiana a New York. Era l’occasione per immergermi totalmente nella cultura ebraica e provare a fare chiarezza su ciò che succede dall’altra parte del mondo, in Palestina. Per un mese, ogni giorno mi sono recato nel quartiere ebraico della città, osservando il paesaggio e le abitazioni, ho parlato con i suoi abitanti, i più diffidenti che ho mai incontrato, ho mangiato i loro cibi, e ho raccolto opinioni su cosa pensassero gli ebrei d’America in merito al conflitto palestinese.
Essendo calabrese, cresciuto con nonni contadini, conosco il valore che può avere l’albero di ulivo e la ricchezza che può dare, in termini di frutti e olio. A quei tempi stavo approfondendo il tema dell’espropriazione delle terre palestinesi ad opera degli israeliani. Mi interessavano gli aspetti giuridici e le ripercussioni sociali. In particolare, la distruzione delle case e lo sradicamento degli ulivi secolari.
Ho portato con me una kefia palestinese e volevo utilizzarla per un intervento da realizzare nelle strade di New York, città in cui è difficile fare arte nello spazio pubblico senza autorizzazione. Ma non importa, perchè nella mia pratica l’osservazione del luogo, la pianificazione dell’intervento e la strategia sono molto importanti, e se tutto è organizzato bene, spesso l’intervento riesce. Ho deciso di collegare il mio intervento all’espropriazione delle terre palestinesi ad opera degli israeliani.
Così mi sono recato in un supermercato ebraico, in cui si vendono prodotti di importazione israeliana, per prendere un barattolo di olive. Seguo da tempo il movimento di boicottaggio economico nei confronti di Israele, e molti prodotti vengono ormai coltivati o realizzati nei territori occupati, ma portano ugualmente etichette e codici di provenienza israeliani.
Ho realizzato un autoscatto che ho stampato su una carta pubblicitaria per inserirlo dentro appositi spazi pubblicitari retro illuminati, che bisogna aprire con una chiave apposita. La stampa raffigura un autoscatto in cui indosso la kefia e sulla testa ho appoggiato il barattolo di olive. Ho voluto dare importanza al barattolo, quindi ho deciso di tenerlo sulla testa, poichè volevo trasmettere l’idea di qualcosa che pesa come un macigno e che bisogna sopportare, senza lasciarsi schiacciare dal suo peso.
Il titolo dell’opera è venuto spontaneamente: “Olive israeliane da uliveti palestinesi”. L’opera è rimasta installata nello spazio pubblicitario per tre giorni, e dopo rimossa.